IL DIARIO DEGLI ERRORI – un percorso nella didattica del taccuino

IL DIARIO DEGLI ERRORI – un percorso nella didattica del taccuino

Ho pensato di prendere a prestito una canzone di Michele Bravi del 2017 come leit motiv di questo articolo, perché senza dubbio il mio rapporto con il taccuino è essenzialmente un diario degli errori. Cerco di spiegarmi meglio.

Abbiamo già discusso più volte, e anche in altre sedi, di come tentare di adattare il laboratorio alla scuola secondaria di II grado; ciò che appare evidente è la contrazione del tempo in classe ma anche la maggior velocità degli studenti e delle studentesse e la loro disponibilità a lavorare anche con strumenti più astratti. Pertanto non ho mai messo in dubbio l’uso del taccuino in classe, quanto meno nel primo e nel secondo biennio.

Come insegnante e sperimentatore prima, e come formatore poi, potrei definire il mio approccio con il WRW in parte “taccuinocentrico”: un termine di nuovo conio per identificare una fase del mio percorso in cui al taccuino erano dedicate gran parte delle mie energie e delle mie attenzione. Ecco, dunque, lo studio del testo di R. Fletcher, A Writer’s Notebook, tra i primissimi passi (su suggerimento di Silvia Pognante, che mi sosteneva nei miei goffi tentativi); ecco anche la posizione preminente, nella mia presentazione nei primi corsi, della costruzione e dell’utilizzo del taccuino. Ecco la riflessione continua e seria su come adattare uno strumento che ha anche una componente affettiva (o, se vogliamo, di momento fondante, che merita un’attenzione e una centralità del tutto speciali) a cui studenti e studentesse delle superiori possono essere poco inclini o disposti; è risultato evidente infatti a tutti gli e le insegnanti di scuola secondaria di II grado che la decorazione del taccuino e la sua celebrazione non potevano avere nei nostri istituti lo stesso spazio che a loro è dedicato nella scuola secondaria di I grado e ancor più alla primaria, magari con qualche illustre eccezione (penso per dire all’istituto professionale per la grafica oppure al liceo artistico). Si tratta di uno di quegli aspetti di ricerca che ben conoscono le colleghe e i colleghi della scuola secondaria di II grado. 

Sin dalle prime sperimentazioni (in un istituto tecnico) ho inserito immediatamente il taccuino nella pratica didattica, dedicando le primissime minilesson proprio alla sua scelta e, una volta ottenuto che tutti gli studenti e tutte le studentesse ne avessero uno, alla sua organizzazione e al suo utilizzo; così pure le annotazioni sono diventate il focus centrale del mio percorso strutturato nella prima parte dell’anno. Non si trattava solo di un’adesione di tipo intellettuale, ma anche di natura pratica, che nasceva dalla riflessione su me stesso: come lettore e scrittore ho tenuto in molti momenti della mia vita un taccuino – e per questo in classe li porto, per mostrare come non si tratti di un semplice compito da eseguire, ma di un’esigenza quasi naturale – e come docente sentivo e sento che senza il taccuino, inteso come spazio di sperimentazione libera, non riuscivo a impostare una efficace didattica laboratoriale. Il primo periodo scolastico, dunque, diciamo fino a Natale, aveva tra i suoi obiettivi questo: rendere l’uso del taccuino ovvio, naturale e spontaneo. Le direttrici erano essenzialmente l’inserimento, piuttosto presto, della richiesta di due annotazioni settimanali anche brevi sul taccuino; la lettura dei taccuini da parte mia durante le vacanze di Natale, con relativi feedback attraverso post-it; e il tentativo di attenzione per la pratica di “nutrire il taccuino”, un monito di Loretta De Martin: vale a dire il ritornare continuamente a “obbligare” i ragazzi a sostare sul taccuino, a scrivere le osservazioni su di esso, a produrre assieme organizzatori grafici che potessero essere utili per il laboratorio di lettura, etc. Inserendo il taccuino nella vita scolastica di studenti e studentesse già ampiamente scolarizzati, poi, una parte dell’attenzione è sempre stata dedicata al rapporto e alla differenza tra taccuino e quaderno e, più in generale, all’inserimento di un nuovo strumento che rompe gli schemi e le abitudini. Nei momenti di stanca, poi, ad esempio quando mi accorgevo o mi veniva riferito che la pratica della annotazioni stava diventando “pesante” e poco fruttuosa, ho inserito da una parte un paio di minilesson di rinforzo (tornare a vedere come si scrive un’annotazione, condividerne alcune delle mie) e dall’altra delle piccole challenge, per stuzzicare gli spiriti più competitivi e ravvivare l’interesse sullo strumento.  

Risultati: per circa una metà della classe le annotazioni funzionavano. L’uso del taccuino ha reso studenti e studentesse più profondi nella lettura e li/le ha spinti/e a riflettere su di sé e su ciò che stavano leggendo in letteratura, ad esempio abituandosi a scovare relazioni laddove prima c’erano solo parole. Anche la scrittura è migliorata: generalmente parlando, più fluente e meno impacciata. Proprio la scrittura poi (sottolineo: per molti/e, non per tutti/e) ha perso il suo fascino malvagio di nemica e di scoglio insormontabile, e ha iniziato a diventare parte integrante della loro vita. 

A leggere questi risultati, si direbbe: bene, il WRW è riuscito laddove molte altre pedagogie si arenano. Certo. Ma qualcosa ancora non mi tornava. 

Intanto c’era il gruppo dei “prof, ti scrivo le annotazioni perché me l’hai chiesto, però che noia”; e poi il gruppo dei “prof, io le annotazioni le faccio tutte in un pomeriggio – una più brutta dell’altra – il giorno prima che tu raccolga i taccuini”; e poi il gruppo più numeroso dei “prof, a me piace scrivere le annotazioni, ma non pensare che io legga un libro”. Dunque: il taccuino aveva portato, parlando per la maggioranza, a buoni risultati, anche solo sul piano strettamente legato all’apprendimento; ma non era strumento indispensabile di vita e neppure, per la maggior parte, aveva portato all’obiettivo di diventare lettori e lettrici per la vita, infatti le annotazioni erano commenti di serie televisive, di foto, di episodi accaduti (tanto da sconfinare molto spesso nel diaristico). La lettura rientrava nel taccuino nella sua forma di lavoro in classe (ad esempio per quanto riguarda lo studio della letteratura), ma non nelle annotazioni: come se si trattasse di due binari che non si incontrano mai. 

Il cambiamento, che porterà alla seconda parte del racconto della mia esperienza con la didattica del taccuino, è scattato grazie all’osservazione di qualcosa che avevo sempre avuto sotto gli occhi, ma a cui non avevo dato peso. Nel fissare la sua gerarchia dei possibili traguardi di lettura (cfr. The Reading Strategies Book, p. 3), Jennifer Serravallo pone lo “scrivere del leggere” come obiettivo ultimo e finale. All’improvviso, un flash. Come si può dunque ipotizzare di partire dalle annotazioni, quando esse sono il prodotto finale e più alto di un processo che mira a formare lettori e lettrici per la vita? Mi è apparso allora chiaro l’altro errore che avevo commesso: considerare il taccuino un prodotto e non un processo. Quante volte avevo ripetuto questa frase, fino a farla diventare un mantra? Ma le sue conseguenze pratiche sono di tutt’altra portata, e non mi erano chiare. Il taccuino non è lo scopo della nostra didattica; impostarlo come focus del primo periodo è controproducente, nella misura in cui le minilesson non si limitino solo all’utilizzo dello strumento (legittimo!) ma alla sua realizzazione come prodotto finito. 

Quest’anno, dunque, ho cambiato per la mia nuova prima liceo. Dopo una riflessione su di me, ho ritenuto necessario inserire comunque subito il taccuino, perché per il mio agire è il modo più naturale di operare: ne ho bisogno come lettore, come scrittore e come insegnante, poiché non so impostare la didattica della scrittura senza di lui. L’ho però lasciato libero, inserendo alcuni elementi un po’ alla volta e in modo graduale, tornando più volte con minilesson ripetute: territori di lettura, territori di scrittura, diario delle letture, quickwrite, dichiarazione degli obiettivi di lettura, sperimentazione, planbox sono stati inseriti un po’ alla volta; e, nel primo periodo, non ho richiesto le annotazioni (per me una novità assoluta). Abbiamo iniziato a scriverne qualcuna, anche solo come semplice richiesta di stendere una riflessione brevissima su ciò che stavano leggendo durante le sessioni di lettura individuale; tale richiesta, nelle prime volte, va a sostituire il momento della condivisione finale. Nella raccolta dei taccuini di fine primo periodo ho allora notato come si potesse leggere molto bene il loro processo di lettori in crescita: alcuni stavano già impostando le annotazioni in modo strutturato (senza che io lo chiedessi) e alcuni avevano iniziato già a organizzarli, secondo sistemi propri (e quindi autentici, in quanto non imposti). Questi taccuini mi sono sembrati più ricchi, e soprattutto molto più autentici, di quelli degli anni passati.  

Dall’osservazione del mio diario degli errori (come docente che sperimenta e si mette in gioco) siamo passati dunque a un taccuino come diario degli errori, ma anche dei trionfi, di ciascun lettore. Gennaio è dunque diventato il mese in cui ho potuto inserire le annotazioni come richiesta, anche se al momento piuttosto limitata. 

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1 thought on “IL DIARIO DEGLI ERRORI – un percorso nella didattica del taccuino”

  • Grazie Stefano! La tua sincerità aiuta e incoraggia tantissimo. È importante pensare che si possa sbagliare le richieste agli studenti perché noi per primi, come docenti, non abbiamo del tutto chiaro un aspetto del wrw. Non è utile sentirsi inadeguati per questo, anzi, come hai dimostrato tu, si può trarre qualcosa di buono anche dagli errori. Accorgersene ed aggiustare il tiro rende più autentico e gioioso il nostro lavoro di ricerca-azione e quello degli studenti. L’aspetto che ho maggiormente apprezzato dell’articolo è quando scrivi della tua necessità di inserire da subito il taccuino, “perché ne ho bisogno come lettore, come scrittore e come insegnante, poiché non so impostare la didattica della scrittura senza di lui”.
    Una conferma del fatto che il WRW non è un metodo rigido e preconfezionato, è piuttosto un abito che ciascun di noi (come lettore, come scrittore e come insegnante) , con la pratica, taglia e cuce su misura per sé. Grazie di cuore anche a Jenny e Silvia per aver segnalato l’articolo in “Educare alla lettura” : rileggerlo, ora, lo rende ancor più interessante e lo inserisce nella giusta cornice di senso.

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