Sulla microfiction, o come curare un bonsai nel giardino della prosa

Sulla microfiction, o come curare un bonsai nel giardino della prosa

“Un bonsai è un microcosmo che contiene al suo interno, immutato in tutto tranne che nelle dimensioni, il mistero dell’universo.”

(Colin Lewis)

Un sopralluogo

Mea culpa. L’ho fatto anche io, spesso e con entusiasmo: per anni ho chiesto ai miei alunni di piantare querce quando avrei dovuto mostrare loro come coltivare bonsai.

Come molti di voi mi sono ritrovata a leggere e correggere pacchi di quei racconti chilometrici che contengono guizzi sorprendenti e scelte lessicali curate, ma… la cui struttura si disperde in mille ramificazioni e, con l’ambizione di guadagnare il cielo, dimentica il tronco e le radici.

Quando poi ho cominciato a sperimentare l’approccio del Writing & Reading Workshop le cose sono migliorate, ma ancora non ero soddisfatta: molti racconti erano piacevoli, ma al lettore davano la sensazione di una mano poco consapevole. Si trattava di narrazioni incolte, sottoboschi ingarbugliati o sequoie ipertrofiche di cui lo stesso giardiniere dimenticava la genesi.

Un’ipotesi di intervento

Quest’anno, complice una classe di dodicenni curiosi, ho proposto un percorso sulla microfiction, racconti di massimo trecento parole. Desideravo che i miei scrittori imparassero a curare la prescrittura della prosa, proprio come avevano fatto con la poesia. Desideravo che “potessero comprimere, omettere, sottintendere e sorprendere” e capissero che “la microfiction è tanto poesia quanto prosa” (1).

Con in mente queste parole ho progettato un percorso con le radici affondate in strategie che i miei alunni già conoscevano. Potendo dare per scontati concetti come “mostra non dire”, curva del racconto, bilanciamento delle sequenze, ricerca di lessico sensoriale e verbi forti, incipit-gancio ed explicit che accompagnano, mi sono concentrata sulla preparazione di minilesson che offrissero tecniche di prescrittura e organizzazione delle idee:  come un bonsai, la microfiction è vita compressa, disciplinata in un piccolo organismo perfetto in cui ogni elemento è essenziale.

Preparare il terreno

In primavera inoltrata, mentre stavamo terminando i circoli letterari su “Il Selvaggio” di David Almond (altri boschi intricati, altre scritture indisciplinate…), ho cominciato a proporre la lettura ad alta voce di albi illustrati e racconti brevi di generi differenti, per lasciar “marinare” i ragazzi in storie e strutture narrative più varie possibile (l’albo che più hanno amato è “I lupi nei muri”, di Neil Gaiman e Dave McKean).

Per l’immersione vera e propria ho dovuto invece scontrarmi con la difficoltà di reperimento di testi modello, perché la microfiction non è un genere molto diffuso in Italia, tranne che nella fantascienza (di certo nelle antologie che vi capitano ogni anno tra le mani si annida “La sentinella”, stupefacente bonsai alieno di Frederick Brown). 

La scelta, oltre che su Brown, è ricaduta su un racconto di Margaret Atwood (2) e un altro scritto (e sudato) da me per l’occasione. Ciascuno, prima individualmente e poi in piccolo gruppo, ha riletto i testi modello glossandoli con in mente quattro piste di analisi: peculiarità della struttura, scelte lessicali, incipit ed explicit.

 

Riuniti in plenaria, abbiamo poi concordato un unico elenco di elementi della microfiction di qualità (vedi foto), elenco che è servito da guida e da rublist di (auto)valutazione.

Riempire la serra

A tutti è stato chiaro da subito che un testo così breve necessita di una preparazione molto accurata, quindi la fase di prescrittura è durata molto più che quella di scrittura e revisione.

L’aspetto che più ha colpito i miei alunni è che la microfiction contiene sempre un punto di svolta, un twist narrativo che fa fare una capriola alle aspettative del lettore, spingendolo a rileggere il testo con occhi consapevoli.

Gli attivatori che ho proposto loro sono quindi andati in questa direzione, li hanno spinti fin da subito ad immaginare “un guizzo” che avrebbe spiazzato il lettore. Si tratta di due liste: la “Lista dello scrittore ispirato”, in cui inserire suggestioni provenienti da canzoni, poesie, altre letture, opere d’arte, eventi quotidiani; e la “Lista dello scrittore sadico” (3), in cui inserire possibili conflitti ed ostacoli che  il protagonista dovrà affrontare. 

Altro attivatore che ha aiutato gli scrittori più fragili è lo “Svolta-ricordo” (il “What if…” di Jennifer Serravallo): una lista di situazioni familiari che improvvisamente “svoltano” in situazioni improbabili.

Per lavorare sul personaggio, per renderlo “persona”, ci è venuto in aiuto l’organizzatore grafico “Anatomia di un personaggio” (vedi foto), che i miei alunni già conoscevano bene avendolo utilizzato per analizzare i protagonisti de “Il Selvaggio” di Almond. 

Un altro strumento utile per ragionare sul personaggio  è stata la tabella a doppia entrata “Ciò che si vede/ciò che non si vede”.

E per la struttura? Dopo aver analizzato una per una le curve dei testi modello e aver visto come si discostano dalla struttura “a campana” del racconto tradizionale, i miei scrittori dodicenni hanno progettato la loro curva nel dettaglio.

Dar forma al bonsai

Con i taccuini gonfi e le penne impazienti, la stesura delle bozze è proceduta spedita, mentre io introducevo o riprendevo alcune strategie di scrittura e revisione (scova il conflitto e illuminalo, uso del correlativo oggettivo, dai spazio all’azione trasformatrice,  riduci all’osso, usa lessico sensoriale e verbi forti) e di editing (un occhio alle valenze del verbo per tenere sotto controllo la lunghezza delle frasi).

La potatura del bonsai, il controllo della sua forma fin nel rametto più esile, è stato l’aspetto che più ha soddisfatto i miei alunni-giardinieri: dai loro process paper emerge la gioia del sentirsi padroni della “materia”, la cura nella scelta della parola giusta, del giusto segno d’interpunzione, la consapevolezza di aver messo a fuoco i dettagli senza perdere l’insieme, consci che scrivere un microracconto è un lavoro di pazienza ed “[…] è come un bonsai. Una fetta di vita scolpita ed intensificata, resiste agli stereotipi perché è difficile scrivere microfiction stereotipata” (4).

Osservare il risultato, prendere nota per il futuro

Alcune considerazioni sparse di fine anno:

  1. Si tratta di una scrittura ad alto tasso di coinvolgimento: ai ragazzi è piaciuto molto cimentarsi con questo genere.
  2. È da inserire stabilmente nel triennio accanto al percorso di poesia per lavorare di cesello sul lessico e sulla struttura.
  3. Necessitando di una programmazione certosina, la microfiction è utile a far entrare nel processo di scrittura l’uso del taccuino.
  4. È necessario sostenere i più fragili nella fase di progettazione, soprattutto durante la costruzione della curva e l’identificazione del punto di svolta.
  5. Durante le consulenze è utile richiamare le minilesson di poesia.
  6. Cercare esempi di qualità tradotti in italiano, sono merce rara!

Qui il microracconto di un mio alunno.

 

 

  • (1)  Nancie Atwell, In the middle, Heinemann 2015, p. 472.
  • (2) “La voce”, in Microfiction, di Margaret Atwood, Ponte delle Grazie, 2006.
  • (3) Omaggio al sesto consiglio di Vonnegut su come scrivere bene una storia breve: “Sii sadico. Non importa quanto dolci e innocenti siano i tuoi personaggi principali, fa’ che accadano loro cose tremende così che il lettore possa vedere di che stoffa sono fatti” (in Bagombo Snuff Box, Vintage Classics 2000, inedito in Italia).
  • (4) Nancie Atwell, In the middle, Heinemann 2015, p. 475.
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