La poesia è corpo

La poesia è corpo

La poesia è corpo, da toccare, annusare, assaggiare. È un oggetto concreto che ci occupa mente e cuore e li ispira per creare altri corpi altrettanto concreti. Questo è stato l’assunto che quest’anno, al mio secondo di sperimentazione del metodo WRW, ha guidato il mio fare e insegnare poesia in due seconde liceo del mio Istituto (degli indirizzi di linguistico e scienze umane).

Innanzitutto, diversamente dagli anni scorsi, ho deciso di cominciare con un’immersione totale nel genere, anziché prevedere soltanto un’ora a settimana alla poesia, da affiancare a una di argomentazione, una di “Promessi sposi” e una di laboratorio lettura. Così, da settembre a fine novembre le ore dedicate alla poesia sono state due/tre a settimana sulle quattro complessive delle superiori.

Abbiamo iniziato da tante liriche di Antonia Pozzi, Kavafis, Montale, Ungaretti (soprattutto)… Insieme ai ragazzi ho letto le poesie, sentito le loro impressioni a caldo, che successivamente hanno imparato a organizzare in uno schema a Y (domande-impressioni-connessioni); sono emerse così, in modo del tutto naturale e legato ai significati di volta in volta negoziati con la classe, le principali figure retoriche e metriche.

Fatto questo, dopo circa tre settimane, siamo tornati su alcune delle liriche lette per focalizzare l’attenzione, attraverso specifiche minilesson, su alcune modalità, tecniche e strategie del fare poesia funzionali al lancio del laboratorio di scrittura poetica, sostanzialmente divise in tre parti: perché i versi, il corpo dei suoni e rendere visibile l’invisibile.

Riguardo ai versi, abbiamo utilizzato soprattutto le poesie di Ungaretti riflettendo sulla motivazione che sta dietro la scelta dei versicoli in molte sue liriche. Le abbiamo confrontate con testi non poetici come stralci di articoli di giornale messi però in versi e ci siamo accorti di due cose: la prima è che, ovviamente, non basta che un testo sia in versi per potersi dire poesia; la seconda – che personalmente mi ha stupito – è che comunque anche un testo banale, se messo in versi, acquista un valore aggiunto. Le parole, circondate dallo spazio bianco, brillano di più, risuonano maggiormente in noi anche se del tutto insignificanti; sembrano alludere a una bellezza nascosta, che sta a noi trovare e interpretare.

Siamo poi passati ad analizzare i suoni; seguendo l’interpretazione di Rudolph Steiner, fondatore delle scuole dette appunto steineriane e di una disciplina chiamata “euritmia”, siamo andati alla scoperta del valore espressivo e, direi, psicologico delle singole lettere: le consonanti infatti rappresentano lo scheletro del reale (prova ne è il fatto che spesso indoviniamo una parola solo a partire dalle suo consonanti), mentre le vocali rappresentano la risonanza emotiva che il reale ha su di noi. Così, lettere come le dentali definiscono, ritagliano la realtà, le nasali M e N sono invece più morbide (la M è una delle prime lettere che il bambino impara a pronunciare, essendo la lettera della suzione al seno materno, del farsi corpo solo con quello della madre). Anche le vocali hanno diversi valori a partire da come sono pronunciate: la A indica apertura e disponibilità al mondo, la E è orizzontale, la lettera dello sguardo che vaga (Sempre caro mi fu quest’ermo colle…), la I, verticale, indica elevazione, la O chiusura, la U profondità. Abbiamo letto le poesie, a partire dall’”Infinito” di Leopardi (che abbiamo soprannominato confidenzialmente “poesia ascensore” per il continuo andare su e giù del poeta, come testimoniano le numerosissime I), contando le lettere e cercando di darne un’interpretazione prima sensoriale, poi più strutturata; e ci siamo resi conto che la poesia parla in modo diretto ai nostri sensi prima che alla mente, trasmette sensazioni che sono in un secondo momento diventano emozioni e poi, forse, pensieri.

L’ultima tranche di lezioni ha riguardato come rendere visibile queste sensazioni attraverso metafore e similitudini. Abbiamo giocato in classe con due serie di bigliettini pescati a caso dai ragazzi, che associavano del tutto casualmente un’emozione a un oggetto concreto, ad esempio “ansia” a “cappello”. I ragazzi dovevano fare “reagire” i due termini e stare a vedere dove li portava la fantasia. Così, abbiamo scoperto che ”l’ansia è un cappello di lana, stretto, ruvido, mi fa prudere la testa ma non riesco a toglierlo”.

Dopo queste ML ci siamo lanciati nel laboratorio di scrittura, non prima però di avere creato insieme ai ragazzi una griglia di valutazione a partire dalle caratteristiche della buona poesia da loro riconosciute dopo la lettura di numerosi testi; griglia che poi ho utilizzato per valutare le loro poesie, insieme al process paper in cui spiegavano come avevano proceduto.

Quindi via libera alle danze! Ho visto alunni molto presi dal lavoro, molto interessati: mi hanno posto molte domande su come rendere più visibile un’idea, su come dividere in versi per far risaltare maggiormente una parola, su come evidenziare la presenza di determinati suoni che ben si collegavano all’idea che volevano trasmettere… alcuni hanno scritto fino a quattro-cinque bozze di una poesia prima di arrivare alla stesura definitiva, in cui hanno mostrato il lavoro di “ridurre all’osso” (“cut to the bone”, per riprendere una minilesson della Atwell).

Anche il lavoro sul process paper è stato quasi sempre molto accurato. È emerso un grande impegno e lavoro anche di riflessione metacognitiva sul loro agire: i ragazzi hanno ben evidenziato le parti della poesia su cui hanno faticato di più spiegandone i motivi e come hanno fatto per superare l’ostacolo, oltre che illustrare ovviamente le parti di cui sono più soddisfatti.

Insomma, è stato un percorso lungo, non semplice ma ricco di soddisfazioni, perché ho visto crescere nei ragazzi la volontà di cimentarsi con la scrittura della poesia, e soprattutto il loro autentico interesse per questa forma di scrittura a torto ritenuta difficile o noiosa da molte persone. E spero tanto che questo interesse li accompagni per tutta la vita.

 

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