Il Decalogo di Schio – Che cosa deve avere un libro? Deve aiutarci a capire chi siamo

Il Decalogo di Schio – Che cosa deve avere un libro? Deve aiutarci a capire chi siamo

Terza puntata del “Decalogo di Schio“: la parola a Caterina Guagni

«Una storia è un giro sulle montagne russe del controllo».

Prendo in prestito le parole di Will Storr, autore di uno straordinario saggio sul narrare (L’arte dello storytelling, Codice edizioni, 2020): sono veloci proprio come un ottovolante, e con un paio di avvitamenti portano al cuore di quello che vorrei condividere con voi.

 

Uno dei grandi nodi della vita di ognuno gira attorno alla questione dell’identità.

L’essere proprio io.

“E che cosa c’entra il controllo con l’identità?”, diranno subito i miei piccoli lettori. 

Provo a spiegarlo ricorrendo all’immagine del dáimōn. Niente paura, non intendo ripercorrere tutta la storia di questo “spirito guida”, che nasce nell’antica Grecia (lo ritroviamo già in Socrate e Platone) e che ci accompagna fino ai nostri giorni: voglio solo utilizzare la rappresentazione che ne dà Philip Pullman nella trilogia di Queste oscure materie (Salani). Qui il dáimōn è un animale che rispecchia l’essenza di una persona nei suoi punti di forza e nelle sue fragilità, la accompagna, la difende, la consola… La cosa interessante è che esso cambia quando il suo umano di riferimento attraversa l’adolescenza; per esempio, il dáimōn di Lyra Linguargentina, protagonista della saga, si chiama Pantalaimon, detto Pan (che guarda caso vuol dire “tutto”, in greco), e assume l’aspetto di falena, ermellino bianco, gatto selvatico, topo prima di stabilizzarsi nella sottile ed elusiva martora. 

Il dáimōn, insomma, è la parte più autentica di noi, ma anche la più difficile da definire, quella che ancora non conosciamo, o che conosciamo ma non afferriamo. Per stabilizzarsi nella sua forma finale, esso procede per tentativi e fa i conti con una sua inclinazione naturale: la vocazione al cambiamento.

 

È qui che sorge la domanda, più o meno consapevole: quanto posso lasciarmi contaminare dal cambiamento, dal contatto con gli altri? Se io sono giallo, quanto posso avvicinarmi al blu senza diventare verde? Come posso regolare questa interazione? 

Ed eccoci al punto. Tentiamo di dominare il cambiamento e l’interazione con il controllo. Per esempio, impersonando i modelli che la società ci offre (quand’è l’ultima volta che hai postato una foto senza filtri?) e, più in generale, tentando di capire che cosa pensano gli altri. Alcune ricerche hanno rilevato, ci ricorda sempre Storr, che la capacità di leggere i pensieri e le emozioni l’uno dell’altro raggiunge, tra gli sconosciuti, un’accuratezza soltanto del 20%, per arrivare al 35% quando si parla di amici o partner. Quindi quasi sempre sbagliamo: Sally Rooney con Persone normali (Einaudi) ci ha costruito un romanzo intero, sull’argomento. 

I nostri errori riguardo a ciò che gli altri pensano portano inevitabilmente a un disequilibrio: forziamo i nostri comportamenti in base a dei preconcetti, e in questo processo la nostra identità sbiadisce i suoi confini, il nostro dáimōn indossa un vestito sopra l’altro e non sa più che forma assumere. Per citare Kurt Vonnegut, le cui parole sono a esergo (non a caso) di Danza sulla mia tomba di Aidan Chambers, «Siamo quello che fingiamo di essere, quindi dobbiamo stare attenti a quello che fingiamo di essere». 

 

Le storie sono un fondamentale antidoto per uscire da questo corto circuito, perché rappresentano i momenti di cambiamento con cui i personaggi – e, di riflesso, anche i lettori – devono fare i conti. Sono delle realtà simulate che ci permettono di sperimentare emotivamente chi siamo, chi vorremmo essere, chi fingiamo di essere. Mettono allo scoperto i nostri «difetti sacri», cioè quella parte di noi sottile, preziosa e probabilmente danneggiata intorno a cui gravitiamo con «sfrenata irrazionalità».

«Perché la lezione di una storia è che non abbiamo idea di quanto possiamo sbagliarci. […] Quando diventiamo irrazionalmente emotivi, e ci mettiamo troppo sulla difensiva, spesso lasciamo emergere quelle parti di noi che richiedono di essere difese in modo più violento. È qui che la nostra percezione del mondo si fa più distorta e tenera. Affrontare questi punti deboli e correggerli sarà la lotta della nostra vita. Raccogliere il guanto della sfida e vincere significa essere un eroe».

 

Spero che tutto questo discorso possa essere una premessa adeguata per dirvi quanto strepitosa sia l’opera di David Levithan, Ogni giorno (BUR, prima edizione in lingua originale 2012).

Il motore narrativo di questo romanzo è creato da un “semplice” what if: che cosa accadrebbe se un essere umano – chiamiamolo A – si risvegliasse ogni giorno nel corpo di un’altra persona della stessa età (maschio o femmina non ha importanza)?

La partitura che nasce è narrativamente difficilissima da gestire, ma ricchissima di prospettive e di derive. Perché A abita tanti corpi, ma prima di questo abita tante menti. Rimane sé stesso, ma ha accesso – come dire? – ai database di ricordi, emozioni, pensieri, esperienze di tutti coloro che attraversa: ragazzi e ragazze di ogni orientamento sessuale e culturale, spensierati o piegati da vari tipi di problemi. E come affronta A il problema di cui parlavamo sopra? Come esercita il controllo? 

«Sono un vagabondo e, anche se la mia condizione comporta un certo grado di solitudine, mi regala un notevole senso di liberazione. Non sarò mai costretto a definire me stesso a partire da qualcun altro. Non soffrirò mai la pressione delle occhiate, il fardello delle aspettative dei genitori. Ai miei occhi ogni individuo si presenta come la parte di un tutto e io posso concentrarmi su quel tutto meglio di chiunque altro. Non sono accecato dal passato, né motivato dal futuro. Mi concentro sul presente perché è la sola dimensione che sono destinato a vivere» (pp. 14-15).

 

La risposta è: non lo esercita. Non li tange, gli altri: ci si immerge direttamente. 

Eppure in questi continui cambiamenti si realizza quello che è il legame più individuale ed elettivo che ci possa essere: l’amore. Quello che succede lo lascio al vostro piacere di lettura, o rilettura, ma c’è una cosa che mi preme sottolineare: l’unico appiglio concreto (e anche qui ci sarebbe da discutere…) di identità che rimane ad A è costituito dalla posta elettronica. E, attraverso di essa, dalla scrittura. Dalle parole. 

Il modo più autentico di comunicarsi può dunque essere costituito dalle parole?



Attraverso questa domanda mi collego al delizioso Cuori di carta di Elisa Puricelli Guerra (Edizioni EL). Qui i protagonisti – Una («Femminile di uno. Sola. Unica. Rara. Irripetibile», p. 17) e Dan – sono in una scuola, una specie di istituto che si delinea meglio pagina dopo pagina e che nasconde qualcosa di strano.

Una lascia un biglietto dentro un libro, Puck il folletto. Lo trova Dan, per caso, e risponde. Inizia un dialogo serrato, un’amicizia, un amore.

I due ragazzi non si conoscono, l’uno non sa che faccia abbia l’altra. Prendono consistenza nell’inchiostro delle loro lettere, nel tocco intimo della penna sulla carta, che ha la stessa consistenza della pelle: «Sento tutto, vedo tutto. Ho la pelle sottile, Dan. La realtà mi scortica viva e mi entra dentro» (p. 169). 

Per questo le parole vanno scelte bene. Dan ha la fissazione di controllarle sul dizionario: «Ho l’abitudine di andare a controllare tutte le parole che non conosco. Quando le trovo, mi sento meglio. Le parole per me sono solide. Sono zattere. Esistono. Le cose, prima o poi, spariscono. Le parole per dirle rimangono» (p. 14).

E in questo romanzo le parole non sono solo zattere: si fanno corde, esche, cicatrici, appigli della memoria (di una memoria che qualcuno sta cercando di riprogrammare, tra l’altro… e qui taccio per non incappare in spoiler e, molto più, per insinuare la curiosità in chi sta leggendo). 

Ci si può innamorare, ci si può fidare di qualcuno che non vediamo? Credo che sarebbe un argomento di discussione interessante, nell’epoca dei social. Devo mostrare la mia immagine, ma utilizzo delle lenti deformanti per migliorare i miei difetti. Devo conoscere persone, ma lo faccio solo attraverso il filtro della chat. Chi sono io? Mi basta la gratificazione degli anonimi e populisti like, o la mia identità ha bisogno di parole scelte?

 

Il mio augurio è che il vostro dáimōn si faccia aquila e farfalla, cavallo e anguilla, che sperimenti tutte le forme e le possibilità che si accordano alla sua curiosità e indole: leggete storie inventate diventandone i protagonisti reali, esploratevi. E quando troverete quella punta di vertigine e di irrazionalità, be’, forse lì avrete trovato il sentiero per inseguire la vostra identità.




Mappa di esplorazione             

🡹 In verticale: spunti per volare alto

  • Ne Il codice dell’anima (Adelphi), lo psicologo e filosofo James Hillman (1926-2011) parla proprio di dáimōn ed espone la “teoria della ghianda”, secondo cui ciascuno di noi possiede in sé l’essenza di ciò che è destinato ad essere, come lì nella ghianda è presente la quercia che non attende altro che esprimersi.
  • Sulle spalle dei giganti è un podcast di Beatrice Masini (lo trovate su Rai Play Sound) che esplora alcuni aspetti chiave nella vita dell’essere umano (desiderio, amicizia, viaggio…), e lo fa – riprendendo il celebre aforisma attribuito a Bernardo di Chartres – come un nano sulle spalle di quei giganti del pensiero che sono “i classici”. L’episodio 4 è proprio dedicato al dáimōn.

 

🡸🡺 In orizzontale: spunti per esplorare altri territori alla stessa latitudine

  • Your name. (Kimi no na wa., lett. “Il tuo nome.“) è un film d’animazione giapponese del 2016 scritto e diretto da Makoto Shinkai. Lo spunto narrativo è vicino a quello di Ogni giorno: Taki e Mitsuha – il primo vive a Tokyo, la seconda in un villaggio di montagna – mentre dormono si ritrovano misteriosamente l’uno nel corpo dell’altra…
  • «Indovinami, scoprimi, sappimi». Così inizia il messaggio che Michele si ritrova nello zaino il primo giorno delle superiori. Non sa chi gliel’ha lasciato>, ma accetta di mettersi in gioco in una curiosa corrispondenza. Perché «scrivere è un modo per stare insieme» e per imparare a conoscersi. Imperdibile questo squisito e brevissimo romanzo, Ciao, tu (BUR ragazzi) firmato da due grandissimi scrittori, Beatrice Masini e Roberto Piumini.
  • Protagonista di Avrei voluto di Olivier Tallec (Edizioni Clichy) è uno scoiattolo che si è scocciato di fare lo scoiattolo, «saltando da un ramo all’altro in cerca di pigne». Esplora quindi tutta una serie di altre possibilità: prova quindi la vita del castoro, del cervo, del riccio e così via, finché scopre quale sia la sua vera identità. E scopre anche di non essere il solo ad avere queste paturnie…

 

Caterina Guagni è nata a Firenze nel 1982. Dopo la laurea in Filologia moderna, ha lavorato come archivista al Gabinetto G.P. Vieusseux, alla Fondazione Primo Conti e all’Accademia della Crusca e ha curato diverse pubblicazioni, tra cui “La pelle” di Curzio Malaparte (Adelphi). Attualmente è progettista e responsabile editoriale presso la casa editrice Giunti T.V.P., che si occupa di libri scolastici per la scuola secondaria. 
“(Buoni) cattivi propositi”, scritto a quattro mani con Carlotta Cubeddu, è il suo primo romanzo.

Condividi


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *