Far germogliare il silenzio. Modellare la quiete nel flusso del laboratorio

Far germogliare il silenzio.  Modellare la quiete nel flusso del laboratorio

To hear, one must be silent
(Ursula K. Le Guin)

Il silenzio di venticinque adolescenti che scrivono o leggono nella stessa stanza è un silenzio che bisbiglia, che fruscia, che mormora. A volte ridacchia, perfino. Si tratta di una quiete vibrante di energia che non sempre riesce a controllarsi, ma quando accade sembra una magia e tutti si fermano ad ascoltare. Questo fino a quando lui, il solito – c’è in ogni classe – esclama stupito: “Prooooof, ma che silenzio che c’è!”. E l’incanto si rompe.

Scrivere e leggere,  essendo atti del pensiero, necessitano dell’attenzione che solo un ambiente silenzioso può rendere possibile.

Nel momento in cui avviamo il laboratorio di lettura e di scrittura è nostro compito aiutare gli alunni a conoscere ed abitare la loro reading zone, quel luogo interiore in cui accedono ai mondi nascosti nei libri. Come spesso accade nelle nostre comunità di lettori, è stato Jed, un alunno di Nancie Atwell, a coniare questo termine evocativo. La reading zone non è un luogo fisico, è lo stato mentale in cui entriamo quando leggiamo. Nella reading zone “dimentico dove sono e chi ho attorno e perfino chi sono io”, per dirla con le parole di Audrey, altra alunna della Atwell1 il cui pensiero riecheggia quello di Proust e di tutti i lettori che abbiano sperimentato quella sensazione di sospensione e rapimento totali che ci regala la lettura.

Come per la reading zone, anche quando parliamo di scrittura è nostro compito creare le condizioni per cui ciascuno riesca ad entrare nel flusso del laboratorio richiede da parte nostra autocontrollo, attitudine all’ascolto e tanto modeling; da parte di tutti tempo, impegno e disponibilità a sbagliare e ritentare. 


UN ALBO

Con il sole di settembre, quando entrare in classe significa portare con sé l’eccitazione del conoscersi o del riconoscersi, dedichiamo molti giorni alla creazione del setting del laboratorio, alla lentezza del prendere o riprendere possesso dei nostri spazi, alla cura dell’ascolto reciproco, alla costruzione del silenzio.

Ci accompagna in questo nostro quieto lavorìo Rifugi, dell’illustratrice svizzera Emmanuelle Houdart, un albo molto potente che, apparentemente, con il silenzio ha poco a che fare. 
Tutti seduti in cerchio, lo leggiamo, guardiamo le figure, ce lo passiamo per osservarle attentamente, cerchiamo dettagli e tentiamo diverse interpretazioni. Pian piano, quel albo e quel “fare insieme” diventano i nostri rifugi, i gesti si fanno minimi, le voci si assottigliano e diventano bisbigli. 
Non si tratta di magia: nelle prime, cruciali ore dell’anno modelliamo il loro comportamento con il nostro, guidiamo la comunicazione verbale e non verbale verso la calma eccitazione che vorremmo ci accompagnasse nel resto dell’anno. 
Ovviamente le difficoltà possono essere varie, come varia è la composizione delle nostre classi, ma alcuni accorgimenti facilitano il compito: parlare da subito a bassa voce, ascoltare con attenzione viva ogni intervento, rinforzare con un feedback positivo ogni minimo progresso degli alunni in questo senso. 
Terminata la lettura dell’albo, parliamo a lungo dei nostri rifugi preferiti, ci scambiamo storie, aneddoti, ricordi. Non scriviamo ancora nulla, perché prima di tutto è necessario rompere il ghiaccio, lavorare sulla condivisione e sull’ascolto attivo: ognuno deve sentire che, in quel silenzio sospeso, le sue storie contano.


DUE POESIE

Nei giorni successivi ci accompagnano nell’esplorazione del silenzio come luogo fecondo due poesie contemporanee: “Ho bisogno di silenzio”, della poetessa Alda Merini, e “Silenzio”, del poeta statunitense Billy Collins. 
La Merini fa riferimento al  silenzio come necessità per la lettura e per il pensare: 

“Ho bisogno di silenzio
come te che leggi col pensiero
non ad alta voce
il suono della mia stessa voce
adesso sarebbe rumore
non parole ma solo rumore fastidioso
che mi distrae dal pensare. […]”

Collins invece scrive un catalogo di silenzi, chiuso dal silenzio dell’atto creativo, rotto dal fruscìo della penna:

“ […] E c’è il silenzio di questa mattina
che ho infranto con la mia penna,
un silenzio accumulatosi per la notte intera


come neve che cade nel buio della casa –
il silenzio di prima che scrivessi una parola
e il silenzio più misero adesso.

Nel leggerle ed interpretarle, ricreiamo la routine che abbiamo cominciato a fare nostra durante l’incontro con l’albo: leggo con un tono di voce basso, sollecito interpretazioni, ascoltiamo le idee di ciascuno e a tutte diamo feedback. Quel “a tutte” è importante. Lo è sempre, ma in particolar modo all’inizio dell’anno, quando il silenzio viene associato all’ascolto e diventa parte del nostro fare comunità.
Lette le poesie, esploriamo il silenzio che c’è attorno e dentro a noi, annotiamo in una lista le scoperte della nostra esplorazione e in un’altra le cose che ci aiutano a “fare” il silenzio. Perché questa lista sia utile dobbiamo chiedere loro di essere più specifici e concreti possibile (altra abitudine metacognitiva che rafforzeremo nei mesi a venire).


TRE ROUTINE

Condizioni per il successo di quanto seminato nei primi giorni sono il modeling e la costruzione di routine: dobbiamo essere noi a fare da modello e a rendere prevedibili le nostre attese riguardo a tono di voce, rumori, ascolto degli altri.
Quando pianifico la lezione, consapevole del fatto che in classe entrano in gioco aspetti relazionali imprevedibili, cerco di prepararmi alla gestione delle emergenze tenendo ben in mente tre strategie che, se riproposte con costanza, possono migliorare notevolmente il setting d’aula e le relazioni.

1. Dedico i primi dieci minuti di ogni ora, comprese quelle di storia e geografia, alla lettura o alla scrittura sul taccuino: i ragazzi sanno che, quando entro, mi aspetto di trovarli con le teste tra le pagine. Questo, oltre al valore intrinseco della lettura, mi permette di ascoltare chi ha necessità di parlarmi e crea un clima calmo e disteso in classe, che predispone all’ascolto della minilesson.
2. Ogni volta, subito prima della lettura e della scrittura autonoma, insisto sulla costruzione del silenzio invitando ciascuno a ricercare il proprio posto silenzioso dentro e fuori di sé e ripetendo l’invito individualmente agli alunni che più faticano a concentrarsi, senza imporre loro di spostarsi ma attendendo che siano loro a sentire questa necessità e a farsene carico. Può avvenire anche dopo molti mesi, ma è importante  che la scelta,  e la responsabilità, rimanga loro.
3. Fin dai primi giorni, facendo tanto modeling e organizzando piccoli momenti di esercitazione a coppie e in piccolo gruppo, insegno loro che il bisbiglio viene dalle labbra, ed è diverso rispetto a parlare sottovoce, che viene invece dalla gola. Nancie Atwell docet: quando tutti parlano sottovoce il tono tende a salire, rendendo in poco tempo l’ambiente rumoroso e poco adatto alla concentrazione. Insegnare come si bisbiglia e come si ascolta chi bisbiglia guardando le sue labbra significa offrire una strategia esplicita che risolve le consulenze tra pari, i momenti di coinvolgimento attivo e, se rinforzato con costanza, può essere esportata in  tutti i lavori di gruppo.

Educare al silenzio, in un mondo di urla, è una sfida etica oltre che didattica. è mostrare ai nostri alunni come ascoltare sé stessi e gli altri in modo attento, è rallentare ed imparare a godere del sussurro, del non detto, della ricerca delle parole giuste, le nostre e quelle nei libri.


NOTE
1. Nancie Atwell, The reading zone, Scholastic Teaching Resources 2007, p.21.
2. “Forse non ci sono giorni della nostra adolescenza vissuti con altrettanta pienezza di quelli che abbiamo creduto di trascorrere senza averli vissuti, quelli passati in compagnia del libro prediletto. Tutto ciò che li riempiva agli occhi degli altri e che noi evitavamo come un ostacolo volgare a un piacere divino: il gioco che un amico veniva a proporci proprio nel punto più interessante, l’ape fastidiosa o il raggio di sole che ci costringevano ad alzare gli occhi dalla pagina o a cambiare posto, la merenda che ci avevano fatto portar dietro e che lasciavamo sul banco lì accanto senza toccarla, mentre il sole sopra di noi diminuiva di intensità nel cielo blu, la cena per la quale si era dovuti rientrare e durante la quale non abbiamo pensato ad altro che a quando saremmo tornati di sopra a finire il capitolo interrotto […]” Marcel Proust, Sur la lecture, citato in Maryanne Wolf, Proust e il calamaro, Vita e Pensiero 2009, p.12.

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